Demototalmediatismo

Questo acronimo sintetizza, secondo l’autore, la mescolanza di democrazia, totalitarismo ed effetti mediatici fusi insieme.
È il modo più realistico per esprimere e qualificare l’attuale status generale.




La geografia politica si ridefinisce in continuazione. Quasi il moto di un divenire alla ricerca continua di una stabilità che non trova, che in definitiva non può trovare, perché ciò che è avvenuto, che avviene e che avverrà non è ascritto in nessun libro del destino. Va letto e interpretato nelle sue dinamiche e nelle sue manifestazioni, senza lasciarsi influenzare da pre/concetti o pre/costruzioni ideologiche, come succede con alcune categorie interpretative ricorrenti, non a caso ideologiche, ormai del tutto inadatte a comprendere il senso del divenire in atto, perché richiamano a simbologie collegate al tempo in cui sono sorte e che hanno perso in gran parte. Se lo sapremo leggere avremo creato anche le basi per identificare ipotesi sensate per intervenire.
Destra e sinistra, per esempio, non esistono più, almeno nei termini tradizionali per cui erano state coniate, divenute inservibili per identificare il senso delle forze in lizza e delle dinamiche politiche attuali. Non corrispondono più da tempo a due diverse visioni della società identificabili, com’era invece in origine. Nel gergo politico in uso e nel linguaggio comune corrispondono più che altro a collocazioni negli schieramenti in campo, completamente sganciate però da idee di riferimento in grado di distinguerle. Anzi! Negli ultimi decenni sembra che la lotta politica non abbia più nulla a che fare con idee che si confrontano, con ipotesi e metodi coerenti il cui senso dovrebbe ricondurre a visioni generali che preconizzano tipologie sociali, come in fondo dovrebbe essere ed è sempre stata la politica.
Questo impoverimento riduttivo in Italia ha ulteriormente subito un imbastardimento particolare, perché da almeno un quindicennio lo scontro tra destra e sinistra è incapsulato nella dicotomia berlusconismo/antiberlusconismo, tutta di superficie. Il teatrino quotidiano dello spettacolo politicante ha ridotto la scena a una miseria a/intellettuale, secondo cui sarebbe di sinistra chi osa contrastare l’egoplutocrate Berlusconi, mentre sarebbe di destra chi lo incensa e lo segue. Un gioco che sta fortunatamente mostrando alcune crepe, soprattutto per merito (neanche tanto inaspettato se si sa guardare con un po’ di “finezza”) dell’opposizione di Fini interna allo stesso PdL, ancora impossibile da accorpare al sinistrismo antiberlusconiano, anche se qualche furbetto (vedi Bossi Feltri e Belpietro) ha già cominciato a provarci.

Recrudescenza autoritaria

In questo panorama poco edificante di autentica antipolitica ai vertici delle istituzioni (ma forse sarebbe meglio parlare di ex-politica) sono scomparsi i valori, i principi, la coerenza etica, il senso della cosa pubblica, cioè il pane e il sale della politica. Quando sono seri, e capita con sempre meno frequenza, questi mestieranti delle dirigenze delle forze in campo al massimo parlano di volersi occupare (ma non è detto che facciano sul serio) dei problemi della gente, dichiarando di volerli affrontare e gestire, cioè promettono di amministrare bene. Ma l’amministrazione della cosa pubblica, pur importante, è solo una competenza che non esaurisce affatto il problema politico, il quale invece riguarda l’ambito generale della decisionalità, il modello di società, le metodologie di gestione, le finalità che danno senso all’essere società.
La categoria del “fascismo”, intesa come pericolo di restaurazione di quel regime, invece è frequentemente strausata, soprattutto all’interno dell’area di estrema sinistra, per denunciare i continui fenomeni di inasprimento autoritario che ci sta regalando l’attuale contingenza politica. Non che non ci siano motivi e ragioni per evocarne lo spettro. Sono infatti sempre più frequenti le manifestazioni, neanche tanto isolate, che hanno il sapore disgustoso delle squadracce del ventennio: incendi di campi rom, morti nelle carceri, saluti romani nelle piazze, manifeste connivenze tra squadristi delle formazioni neofasciste e apparati dello stato, aumento di aggressioni, di vandalismi e di minacce nei confronti di chi è tacciato di non essere allineato con un pensare uniformato.
Ma partire da queste constatazioni, certamente preoccupanti, per teorizzare che è in atto una restaurazione fascista di regime istituzionalizzato, è un errore di valutazione che ci allontana dalla comprensione delle dinamiche che si stanno svolgendo. Se è innegabile che sia in atto una costante recrudescenza autoritaria, che si riconduce alla filosofia di dominio dei poteri costituiti vigenti, non è però affatto conseguente che questa constatazione implichi necessariamente una restaurazione del regime mussoliniano, come con troppa facilità indica chi ripropone pari pari una nuova resistenza contro un temuto risorgente fascismo.
Le caratteristiche di costante violenza autoritaria che abbiamo sotto gli occhi non ricordano solo il fascismo, ma sono riconducibili, sempre per rimanere in tema di rimembranze non troppo lontane, anche per esempio al nazismo ed al bolscevismo, cioè a tutti i totalitarismi che presero forma nel secolo scorso. Ci siamo già dimenticati i gulag sovietici, che non hanno nulla da invidiare ai campi di sterminio nazisti, o ai Cpt, o agli attuali Cie? Oppure i pogrom antiebraici del bolscevismo, come pure le discriminazioni contro zingari e omosessuali perpetrati da tutti i regimi totalitari di destra e di sinistra? È per caso fascista anche la Cina, oppure la Corea del nord, o a suo tempo la Cambogia di Pol Pot che realizzò un quasi genocidio? E i diversi regimi teocratici e assolutisti oggi in atto che si rifanno a una lettura estremizzata e fondamentalista dell’Islam?
Se si vuole veramente comprendere la dinamica che si sta svolgendo, bisogna prender atto che la recrudescenza autoritaria della situazione attuale ha evidenti caratteristiche riconducibili a tutti i totalitarismi, si tratti di fascismo, di bolscevismo, di nazismo e per certi versi di teocraticismo, senza al contempo essere una riproduzione di nessuno di essi in particolare. Ricondurla e relegarla al solo fascismo non può che diventare una semplificazione riduttiva, ingenerata da pregiudizi ideologici. Perché regalare al fascismo la palma dell’apice e della pratica autoritarie, quando esso non è altro che un aspetto, storicamente datato, di un fenomeno molto più ampio?
L’incubo che stiamo subendo è qualcosa di diverso, per certi versi innovativo, che sta realizzando un nuovo autoritarismo politico all’altezza dei tempi, il quale, per essere efficace, usufruisce in modo aggiornato e perfezionato di alcune modalità che presero forma durante l’era dei totalitarismi. Ma è qualcosa di più, frutto di un sapiente laboratorio politico, una micidiale mistura di tecniche di sottomissioni totalitarie, di induzione e imbonimento mediatici, di consenso di tipo plebiscitario a leadership illiberali e antilibertarie, ottenute con operazioni da grande/fratello orwelliano. Credo che l’acronimo demototalmediatismo, che sintetizza la mescolanza di democrazia, totalitarismo ed effetti mediatici fusi insieme, pur arbitrario, sia il modo più realistico per esprimere e qualificare l’attuale status generale.

Più pericoloso dei totalitarismi

Smembrata e scarnificata nella sostanza democratica, ridotta a mero consenso al potere, la democrazia vigente viene continuamente sbandierata per mascherare la costante opera di decomposizione del suo senso. Così è per la libertà, per la pace, per i diritti e tutti i concetti del patrimonio culturale del libertarismo e del liberalismo. Come non evocare l’impatto devastante della neolingua orwelliana, attraverso i tre slogan del Miniver (ministero della verità) che minacciano sinistramente dall’imponenza della piramide in cemento: La guerra è pace – La libertà è schiavitù – L’ignoranza è forza? Come non riconoscere nell’efficacia di questi slogan la verità di quello che stiamo vivendo? Demototalmediatismo esprime la condizione che stiamo subendo, che il laboratorio politico del dominio attuale sta affinando giorno dopo giorno.
Siamo al di là del fascismo e dei totalitarismi novecenteschi. Ci stiamo muovendo in un territorio nuovo e diverso, nel quale le vigenti oligarchie politico/finanziarie stanno sperimentando, finora con successo, la fusione di concetti e tecniche al tempo stesso sia democratiche, sia totalitarie, sia di induzione mediatica, alla ricerca di una ridefinizione antropologica della convivenza tra esseri umani, all’insegna di un rafforzamento delle forme di dominio, dei poteri centralizzati e degli stati di dipendenza dei sottoposti. Ma, a differenza del fascismo e dei vari totalitarismi, non usa sistematicamente metodi direttamente repressivi e censori. Non impedisce per legge la libertà di stampa, di parola, di riunione, se non per situazioni emarginate fuori controllo. Non concede la dignità della resistenza all’oppressione diretta. Agisce in modo molto più sottile e sofisticato attraverso l’imbonimento e l’induzione mediatici e l’attrazione consumistica. È un sistema che non reprime se non si sente costretto, mentre tende a sedurre, ottenendo forme di consenso quasi subliminali. È molto più pericoloso e peggiore dei totalitarismi, quindi del fascismo, perché si fonda sul consenso “democratico”.
Alla luce di questa condizione generalizzata che si sta via via definendo, la geografia politica che emerge un’elezione dopo l’altra è illuminante. Per comprenderla e identificarne il percorso di riassestamento in divenire bisogna risalire all’’89, anno del crollo del muro di Berlino, evento simbolico che rappresenta il momento di passaggio dalla fine di uno status internazionale, il bipolarismo delle superpotenze, ad un altro status internazionale, l’attuale condizione mondiale generalmente nota come globalismo.
Ne sono derivate in particolare due conseguenze. La prima è il passaggio definitivo ad un’economia di mercato su scala globale, non più nazionale, il cui nervo gestionale e dirigenziale si è spostato totalmente nel regno della finanza, a discapito dei luoghi di produzione che ne subiscono sistematicamente movimenti e scelte speculative. I vecchi gestori del capitalismo produttivo sono passati in second’ordine, perché i nuovi gestori del mondo sono le oligarchie finanziarie planetarie. La seconda è che si è letteralmente sgretolato il vecchio immaginario di emancipazione. Col crollo per implosione dell’impero URSS è definitivamente crollata la costruzione immaginaria di massa della sinistra, l’identificazione dell’alternativa al capitalismo della proprietà privata, egemonizzata dal sistema autoritario statalista del bolscevismo russo. Sono cioè crollati i miti della sinistra, che ne facevano un polo di attrazione di massa in grado di illudere sulla possibilità del riscatto dei più deboli attraverso il partito anticapitalista.

Aumentato distacco dalle dirigenze politiche

La sinistra è così scomparsa come identificazione immaginaria, sostituita da una serie di spostamenti e nuovi schieramenti. Con le elezioni politiche di due anni fa è poi anche scomparsa di fatto la sinistra che ancora arrancava dietro i vecchi miti. Sono rimaste una serie di forze e formazioni che è impossibile ricondurre alle visioni espresse dalla destra e dalla sinistra storiche, tutte propense a proporsi, con varie formule, come le nuove amministratrici dell’esistente. Non c’è più lo scontro tra diverse visioni del mondo, ma tra diversi interessi per la gestione di un potere sempre più marginale, quello politico, sempre più sottoposto ai dettami delle oligarchie finanziarie.
Con le ultime elezioni regionali è interessante notare che l’adesione a queste nuove lobbies della lotta per il potere politico sta diminuendo. Ciò che aumenta è il distacco dalle dirigenze politiche. Un’astensione al 36% dell’elettorato, accompagnata da una cospicua quantità di schede bianche e nulle. Ben oltre il 40% degli aventi diritto non ha espresso un voto. Il che significa che, al di là delle percentuali assegnate, la classe dirigente eletta è rappresentativa di poco più della metà dei potenziali votanti, che però secondo il sistema autoritario vigente decide per tutti, anche per chi non li ha votati. Ne consegue che anche proporzionalmente è strutturale una recrudescenza autoritaria, che da un punto di vista libertario non può che essere una deriva.
Si apre lo spazio per un salto qualità: è ora di cominciare a pensare che essere governati dall’alto non risolve i problemi, anzi li amplifica. Quando riusciremo a capire che dobbiamo cominciare ad autogovernarci in modo diretto, decidendo concordemente senza più delegare a nessuna classe politica, che non può che agire per gli interessi delle oligarchie dominanti?

Andrea Papi

Dall'ultimo numero di A-rivista, disponibile all'indirizzo: http://arivista.org